That was that “Uluzzian” thing you may have heard about


L’Uluzziano, questo sconosciuto.

Chi si occupa di archeologia del Paleolitico sa bene che l’ostacolo più grande è quello di definire i limiti tra culture e specie differenti. Questo perché - l’evoluzione insegna - tali limiti sono sempre molto labili o, molto spesso, del tutto assenti. È quello che succede, per esempio, nel passaggio tra il Paleolitico Medio e Superiore, in cui si identificano dei periodi cronologici, tra 44 mila e 42 mila anni fa, che vedono una convivenza, e probabilmente una mescolanza, tra Neandertal e Sapiens. Denominazione e limiti cronologici di questi periodi di transizione variano in base alle aree geografiche e alle evidenze archeologiche: in Italia, si parla di Uluzziano. L’Uluzziano prende il nome dalla Baia di Uluzzo, situata in Salento, poco più a nord di Gallipoli, dove è stato per la prima volta identificato durante gli scavi del sito di Grotta del Cavallo (Palma di Censola 1989, Moroni et al 2018). Si tratta di un complesso culturale riconosciuto finora solo in pochissimi siti del Mediterraneo centrale e del sud dei Balcani, e considerato la più antica espressione culturale dei primi Uomini Anatomicamente Moderni nell’Eurasia occidentale. A livello archeologico, l’Uluzziano è riconoscibile dal ritrovamento di particolari reperti, sintomo di un avvenuto cambiamento culturale. I reperti litici più significativi sono i cosiddetti pezzi scagliati (fig. 1 a-b), realizzati con una particolare tecnica di scheggiatura in cui si poggia il blocco di selce su una superficie dura che funge da incudine: questa tecnica è tipica della lavorazione della pietra durante l’Uluzziano. Essa viene spesso praticata su strumenti già esistenti, che vengono in questo modo “riciclati” e adoperati per altre funzioni. Altre morfologie tipiche dello strumentario uluzziano sono le c.d. semilune (fig. 1d) - strumenti litici geometrici di piccole dimensioni a segmento di cerchio - e le punte in selce a dorso ricurvo (fig. 1c). Caratteristici sono anche gli strumenti in osso (fig. 2), soprattutto punteruoli. Per la loro realizzazione, dagli scarti del pasto venivano selezionate le ossa con morfologia simile a quella dello strumento desiderato, che venivano poi sagomante e appuntite con degli strumenti in pietra.




Queste azioni lasciano sulla superficie dell’osso delle microscopiche raschiature che ne consentono l’identificazione. L’utilizzo dell’osso come materia prima per la produzione di strumenti è un traguardo tecnologico notevole, in quanto include differenti capacità cognitive: da una parte, individuare una potenziale materia prima in un materiale fino ad allora visto solo come scarto, dall’altra acquisire la consapevolezza delle sue caratteristiche fisiche e meccaniche, che rendono l’osso addirittura migliore della pietra per la produzione di alcuni strumenti. L’utilizzo dell’osso come materia prima era già diffuso durante il Musteriano, ma sembra prendere il sopravvento solo con la transizione al Paleolitico Superiore. L’aspetto forse più interessante, infine, è l’arrivo di un nuovo tipo di simbolismo, manifestato da conchiglie (marine e d’acqua dolce) adoperate come ornamenti personali. Esse erano in genere lavorate con uno strumento in pietra per ottenere una superficie piatta, e successivamente segate per ottenere delle “perline”. Altre, invece, venivano perforate per poi essere sospese su un filo e probabilmente adoperate come collana. Non è raro trovare sulla superficie delle conchiglie residui di ocra rossa, un pigmento comunemente utilizzato nel Paleolitico per molte funzioni, alcune delle quali probabilmente simboliche.

L’arrivo di Homo sapiens in Europa costituisce un check-point fondamentale nel cammino evolutivo della specie umana, in quanto ha di fatto segnato (almeno cronologicamente) l’estinzione di un nostro cugino che ha vissuto in Eurasia per centinaia di migliaia di anni, l’uomo di Neandertal. In questo senso, lo studio dei “complessi di transizione” sembra essere la chiave per scoprire, a piccoli passi, tutti i retroscena associati ai numerosi cambiamenti tecnologici e culturali apparsi quando la nostra specie ha deciso di conquistare il mondo.



That was that “Uluzzian” thing you may have heard about

Palaeolithic archaeologists may be familiar with a serious problem: defying boundaries among different cultures and/or species. The reason is that these boundaries are very ephemeral or, sometimes, they don’t exist at all. It happens, for instance, during the transitional phase between Middle and Upper Palaeolithic, when we can see the existence of some intervals of time, from 44,000 to 42,000 years ago, which show a cohabitation, and probably a cross-breed, between Neandertal and Sapiens. The denomination and the chronological limits of these periods of transition are various, depending on the geographic areas and the archaeological evidences: in Italy, we talk about Uluzzian. The Uluzzian is named after the Bay of Uluzzo, situated in the southern Italy (Salento, north of Gallipoli), where for the first time it was identified during the excavation of the site of Cavallo Cave (Palma di Censola 1989, Moroni et al 2018). It is a cultural complex, up to now recognized only in few sites of the central Mediterranean and the south of the Balkans, and it is considered the most ancient cultural expression of the first Anatomically Modern Humans in western Eurasia. During archaeological excavations, the Uluzzian is recognizable from specific finds, which communicate some sort of cultural change. Among the lithic tools, the so-called splintered pieces (fig. 1a-b) are very diagnostic. They were realized with particular flaking technique, in which the block of flint is placed on a hard surface with an anvil function: this is a typical Uluzzian flaking technique. It was often applied on already existing tools, which, in this way, were “recycled” and used for other purposes. Other typical morphologies of the Uluzzian tool-kit are the crescent-shaped microlithics (fig. 1d) – some geometric small-sized lithic tools shaped in the form of an arc of a circle – and the flint backed points (fig. 1c). Bone tools (fig. 2) are very typical, too – especially awls. For their realization, the bones shaped like that of the wanted tool were selected from the meal remnants, and then they were modelled and sharpened with a stone tool. These actions leave on the surface of the bone some microscopic scraping traces, which allows us to identify them as tools. The use of the bone as raw materials for the production of artefacts is remarkable technological accomplishment, as it includes several cognitive abilities: on one hand, to recognize a potential raw material in a material which was before seen only as a waste, on the other hand, to understand bone’s physical and mechanical proprieties, demonstrating that it could be, in some cases, even better than the stone for the production of some specific tools. The exploitation of the bone as raw material was already diffused during the Mousterian, but it seems to take the windward within the transition to the Upper Palaeolithic. Perhaps the more interesting aspect, finally, is the appearance of a new type of symbolism, expressed by shells (both marine and fresh-water) used as personal ornamentations. They generally were worked with a stone tool in order to obtain a flat surface, and successively they were sawed obtaining “beads”. Other shells, instead, were perforated and then suspended on a thread, probably used like necklace. It is not rare to find on their surface some residues of red ochre, a pigment commonly used in the Palaeolithic with several functions, some of which probably symbolic.
Homo sapiens’ arrival in Europe is an essential checkpoint in the evolutionary journey of the mankind, because it has in fact marked (at least chronological) the extinction of a dear cousin of ours – the Neanderthal man – who lived in Eurasia for hundreds of thousands of years. In this sense, the study of the “transition complexes” seems to be the key to understand, step-by-step, what has gone on behind the scenes of the several technological and cultural changes which took place when our species decided to conquer the world.



Bibliografia/References

Moroni A., Ronchitelli A., Arrighi S., Aureli D., Bailey S.E., Boscato P., Boschin F., Capecchi G., Crezzini J., Douka K. et al (2018) Grotta del Cavallo (Apulia—Southern Italy). The Uluzzian in the mirror. J. Anthropol. Sci. 96.

Palma di Cesnola A. (1989) L’Uluzzien: faciès Italien du Leptolithique archaïque. L’Anthropologie 93: 783–812.

Peresani M. (2014) L’Uluzzien en Italie. In: Otte M (ed) Néandertal/Cro-Magnon. La Rencontre. Editions Errance, Arles, pp 61–80.

Peresani M., Bertola S., Delpiano D., Benazzi S., Romandini M. (2019). The Uluzzian in the north of Italy: insights around the new evidence at Riparo Broion. Archaeological and Anthropological Sciences.

Riel-Salvatore J. (2009) What is a ‘transitional’ industry? The Uluzzian of Southern Italy as a case study. In: Camps M., Chauhan P. (eds) Sourcebook of Paleolithic transitions. Methods, theories, and interpretations. Springer Science, New York, pp 377–396.

Ronchitelli A., Moroni A., Boscato P., Gambassini P. (2018) The Uluzzian 50 years later. In: Valde-Nowak P., Sobczyk K., Nowak M., Źrałka J. (eds) Multas per gentes et multa per saecula. Amici Magistro et Collegae Suo Ioanni Christopho Kozłowski dedicant. Institute Archaeology, Jagiellonian University, Kraków, pp 71–76.




Eva Francesca Martellotta

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